Codice Civile art. 320 - Rappresentanza e amministrazione 1.

Annachiara Massafra

Rappresentanza e amministrazione 1.

[I]. I genitori congiuntamente, o quello di essi che esercita in via esclusiva la responsabilità genitoriale [155 3, 317 1, 317-bis 2] 2, rappresentano i figli nati e nascituri, fino alla maggiore età o all'emancipazione 3 in tutti gli atti civili [1387] e ne amministrano i beni [165, 334, 465, 643]. Gli atti di ordinaria amministrazione, esclusi i contratti con i quali si concedono o si acquistano diritti personali di godimento [1380], possono essere compiuti disgiuntamente da ciascun genitore.

[II]. Si applicano, in caso di disaccordo o di esercizio difforme dalle decisioni concordate, le disposizioni dell'articolo 316.

[III]. I genitori non possono alienare, ipotecare o dare in pegno i beni pervenuti al figlio a qualsiasi titolo, anche a causa di morte, accettare [471] o rinunziare ad eredità o legati, accettare donazioni, procedere allo scioglimento di comunioni, contrarre mutui o locazioni ultranovennali o compiere altri atti eccedenti la ordinaria amministrazione né promuovere, transigere o compromettere in arbitri giudizi relativi a tali atti, se non per necessità o utilità evidente del figlio dopo autorizzazione del giudice tutelare [45 att.; 747 c.p.c.].

[IV]. I capitali non possono essere riscossi senza autorizzazione del giudice tutelare, il quale ne determina l'impiego.

[V]. L'esercizio di una impresa commerciale non può essere continuato se non con l'autorizzazione del giudice tutelare.4

[VI]. Se sorge conflitto di interessi patrimoniali tra i figli soggetti alla stessa responsabilità genitoriale, o tra essi e i genitori o quello di essi che esercita in via esclusiva la responsabilità genitoriale, il giudice tutelare nomina ai figli un curatore speciale [394 4; 78 2 c.p.c.]. Se il conflitto sorge tra i figli e uno solo dei genitori esercenti la responsabilità genitoriale, la rappresentanza dei figli spetta esclusivamente all'altro genitore5.

 

[1] Articolo sostituito dall'art. 143 l. 19 maggio 1975, n. 151.

[2] L'art. 44, d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154, ha sostituito alla parola «potestà», le parole: «responsabilità genitoriale». Ai sensi dell’art. 108, d.lg. n. 154 del 2013, la modifica è entrata in vigore a partire dal 7 febbraio 2014.

[3] L'art. 44, d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154, dopo le parole: «i figli nati e nascituri» ha inserito le parole: «, fino alla maggiore età o all'emancipazione». Ai sensi dell’art. 108, d.lg. n. 154 del 2013, la modifica è entrata in vigore a partire dal 7 febbraio 2014.

[4] Comma sostituito dall'art. 1, comma 4, lett. c), d.lgs.  10 ottobre 2022, n. 149 (ai sensi dell'art. 52 d.lgs. n. 149/2022, il citato decreto legislativo entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale). Per la disciplina transitoria v. art. 35 d.lgs. n. 149/2022, come da ultimo modificato dall'art. 1, comma 380, lett. a), l. 29 dicembre 2022, n. 197,  che prevede che : "1. Le disposizioni del presente decreto, salvo che non sia diversamente disposto, hanno effetto a decorrere dal 28 febbraio 2023 e si applicano ai procedimenti instaurati successivamente a tale data. Ai procedimenti pendenti alla data del 28 febbraio 2023 si applicano le disposizioni anteriormente vigenti.". Si riporta il testo anteriore alla suddetta modificazione« L'esercizio di una impresa commerciale non può essere continuato se non con l'autorizzazione del tribunale su parere del giudice tutelare . Questi può consentire l'esercizio provvisorio dell'impresa, fino a quando il tribunale abbia deliberato sulla istanza». 

[5] L'art. 44, d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154, ha sostituito alla parola «potestà», le parole: «responsabilità genitoriale». Ai sensi dell’art. 108, d.lg. n. 154 del 2013, la modifica è entrata in vigore a partire dal 7 febbraio 2014.

Inquadramento

I genitori sono titolari del “dovere-potere” di rappresentare i figli, in tutti gli atti civili, e di amministrarne i beni, fino al compimento della maggiore età o all'emancipazione.

In dottrina si qualifica nei citati termini la situazione soggettiva spettante ai genitori sopra indicata in quanto trattasi di un potere attribuito a questi ultimi al fine di esercitare compiutamente la responsabilità genitoriale e di tutelare gli interessi anche patrimoniali del figlio minore (Jannuzzi, 126, Santarcangelo, 120, Bucciante, 615, De Cristofaro, 1076). Accanto a questi poteri-doveri la dottrina colloca l'usufrutto legale ( Bucciante, 615, Jannuzzi, 126).

L'art. 320 c.c. è stato modificato dal d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, sia sotto il profilo lessicale (essendo stata sostituita l'espressione “potestà genitoriale” con “responsabilità genitoriale”) sia sotto quello dell'individuazione del limite temporale dell'esercizio della responsabilità genitoriale. È stato difatti esplicitamente previsto che il potere di rappresentanza così come quello di amministrazione  cessi con il compimento della maggiore età o con l'emancipazione del figlio.

Tali poteri, peraltro, devono ritenersi irrevocabili ed irrinunciabili (Jannuzzi, 124).

Il potere di rappresentanza, relativamente ai rapporti di natura patrimoniale, si presenta come inscindibilmente connesso con quello di amministrazione mentre, con riferimento a tutti gli altri atti civili, si presenta come un potere autonomo (Bucciante, 615). Deve infatti evidenziarsi che non sempre le attività in cui si sostanzia l'uno comportano anche l'esercizio dell'altro (De Cristofaro, 2002, 1078).

Esso non ha tuttavia carattere assoluto ed illimitato in quanto pur consentendo al genitore di porre in essere atti di esercizio dei diritti personali (ad es. atti di disposizione del corpo ex art. 5 c.c.) non gli consente di porre in essere atti di natura personalissima attribuiti dal legislatore personalmente al minore, come il testamento (Bucciante, 615).

In forza della doverosità che lo contraddistingue, l'esercizio di tale potere non è delegabile a terzi (o all'altro genitore) per la gestione di tutte le questioni di natura patrimoniale, per le quali del resto in caso di impossibilità soccorre l'art. 317 c.c. (Bucciante, 618, pertanto ritiene inammissibile il conferimento di una procura generale a terzi).

Tuttavia, autorevole dottrina ritiene possibile il conferimento di una procura speciale solo per il compimento di specifici atti (Pelosi, 347). In questo senso vi è chi ha ritenuto altresì ipotizzabile una delega ad uno dei genitori nell'ambito di settori particolarmente complessi così da valorizzare le competenze di ciascuno di essi (Figone-Ravot, 59).

L'esercizio del potere-dovere di rappresentanza da parte del genitore, inoltre, non necessita della spendita del nome del rappresentato affinché gli effetti degli atti compiuti si producano nella sfera giuridica del figlio.

In merito Cass. I, n. 5259/1999, in tema di azione per ottenere la declaratoria di paternità naturale presentata dal genitore nell'interesse del figlio minorenne, ha affermato che non occorre che l'esercente la responsabilità genitoriale, dichiari espressamente di agire in nome e per conto del figlio o comunque nell'interesse dello stesso, ma si rende sufficiente che, dal contesto complessivo del ricorso, emerga che il ricorrente agisca nell'interesse del minore.

Una parte della dottrina ha confermato tale orientamento (in particolare, nel senso di non ritenere necessaria la spendita del nome purché vi sia una inequivoca volontà del genitore di agire per il minore e l'altro contraente ne sia conoscenza, si veda Santarcangelo, 128).

Il potere di rappresentanza, peraltro, può essere esercitato già prima della nascita del figlio secondo quanto prevede l'art. 320, comma 1, c.c., potendo i genitori assumere decisioni per il nascituro, ex artt. 462 e 784 c.c., oltre che agire in giudizio in difesa dei suoi diritti (sul punto si vedano: Cass. I, n. 1503/1993, e Cass. III, n. 14488/2004).

Per quanto concerne il potere-dovere di amministrazione dei beni, esso include tutte quelle attività al cui svolgimento consegue (o può conseguire) una modificazione dell'assetto o una alterazione della consistenza quantitativa e/o qualitativa del patrimonio del minore (così De Cristofaro, 2002, 1076). Il detto potere non può che essere attribuito ai genitori, atteso che lo stato di incapacità in cui versa il minore impone l'individuazione di soggetti capaci che possano tutelarne il patrimonio ponendo in essere gli necessari ed opportuni per conservalo e ove possibile, migliorarlo.

L'amministrazione dei beni, pertanto, si realizza mediante il compimento di tutti gli atti di ordinaria o straordinaria amministrazione che siano necessari per tutelare e conservare il patrimonio del minore (Bucciante, 560; Jannuzzi, 126) e prescinde dal potere di rappresentanza ove l'attività svolta dai genitori non coinvolga relazioni con i terzi (Bucciante, 615). Nel dettaglio, anche quando debba porsi in essere un atto di fronte ai terzi, la decisione in merito al compimento o meno dell'atto rientra nel potere di amministrazione mentre la fase relativa al compimento dell'atto è relativa a quello di rappresentanza (Bucciante, 619).

Tale potere-dovere è sottoposto a limiti da parte del legislatore ed a controlli da parte dell'Autorità giudiziaria meno penetranti di quelli previsti per il tutore, in considerazione della diversa fiducia risposta in quest'ultimo. Sicché, il genitore non è tenuto a prestare cauzione, a rendere il conto annuale e finale né a redigere l'inventario dei beni del minore (in merito Jannuzzi, 127; circa la necessità di rendere il conto del proprio operato al figlio divenuto maggiorenne si vedano: Bucciante, 619, e e De Cristofaro, 2002, 1078). Il potere di amministrazione si esaurisce nei rapporti interni tra genitori e figlio mentre il potere-dovere di rappresentanza si attua ed è efficace verso i terzi, consistendo nel potere di rappresentare il minore in tutti gli atti civili (Bucciante, 619).

I genitori congiuntamente, o quello di essi che esercita in via esclusiva la responsabilità genitoriale, quindi rappresentano il figlio minorenne in tutti gli atti civili e ne amministrano i beni.

È opportuno evidenziare, ai fini di una corretta applicazione della disposizione in commento che l'esercizio congiunto di tali poteri-doveri presuppone l'esercizio pieno da parte di entrambi i genitori della responsabilità genitoriale; sicché, ove si tratti di genitori separati legalmente o divorziati (etc.) dovrà verificarsi se sia stato disposto l'affidamento condiviso, esclusivo, super esclusivo (etc.) al fine di determinare le modalità concrete attraverso le quali si esplichino i poteri di rappresentanza e di amministrazione dei beni del minore.

Il potere di amministrazione, difatti, spetta nella sua interezza solamente al genitore che sia titolare ed abbia altresì l'esercizio della responsabilità genitoriale (De Cristofaro, 2002, 1076). Sicché, ove il minore venga affidato in via esclusiva ad un genitore si concentrano in capo a quest'ultimo i poteri di amministrazione e rappresentanza (De Cristofaro, 2016, 691, il quale evidenzia che in tal caso una “decisione di maggiore interesse” deve essere adottata congiuntamente da entrambi i genitori, salva l'attuazione della stessa spettante al genitore affidatario).

I genitori sono quindi tenuti a rappresentare congiuntamente, in caso di esercizio pieno della responsabilità genitoriale, il figlio (ed il nascituro) in tutti gli atti civili, intendendosi per essi non quelli di mera amministrazione ma anche gli atti di contenuto non patrimoniale (Finocchiaro-Finocchiaro, 2055, i quali rilevano, in particolare, che l'attività disgiunta riguarda solo il compimento dell'atto ma non la relativa decisione; in questo senso anche Bucciante, 566).

La circostanza secondo la quale il potere di rappresentanza spetta ai genitori congiuntamente, viene ulteriormente rafforzata, alla luce della riforma della filiazione e dei principi cui essa è ispirata. I genitori, difatti, esercitano entrambi a responsabilità genitoriale anche nell'esercizio di tale potere dovendo decidere insieme se compiere un atto di straordinaria amministrazione nell'interesse del figlio, sentendolo al fine di comprenderne la volontà (ove capace di discernimento), e devono agire di comune accordo. In caso contrario invece, in ipotesi di contrasto, trova applicazione l'art. 316 c.c..

Il ricorso al Tribunale ex art. 316 c.c. può essere effettuato, conformemente al contenuto ed alla ratio della stessa disposizione, nel caso in cui il contrasto si verifichi tra genitori che esercitino la responsabilità genitoriale e solo per le controversie di natura patrimoniale che rivestano particolare importanza (in merito si veda De Cristofaro 2016, 694). La controversia può peraltro sorgere sia in merito ad un negozio che si intenda porre in essere sia con riferimento alle modalità attuative dello stesso. Il riferimento normativo alle «questioni di particolare importanza» è certamente riferibile al compimento di atti eccedenti l'ordinaria amministrazione, in quanto idonei ad incidere sul patrimonio del minore. Tuttavia, taluni in dottrina condivisibilmente osservano che le questioni di particolare importanza possono, in astratto, inerire anche ad un atto di ordinaria amministrazione (Pelosi, 347; Bucciante, 563). Esso, non sottoposto al controllo del Giudice tutelare, può difatti comportare rilevanti conseguenze (si pensi alla scelta di costituirsi in un giudizio nel quale il minore è convenuto).

Appare, quindi, legittimo chiedersi cosa accada qualora il contrasto  si realizzi con riferimento al compimento di atti di ordinaria amministrazione che non abbiano particolare rilevanza. Secondo autorevole dottrina, il rinvio effettuato dall'art 320 c.c. all'art. 316 c.c. consentirebbe comunque il controllo su tali atti da parte dell'Autorità giudiziaria nelle forme di cui all'art. 316 c.c. (Pelosi, 342; in questo senso anche Bucciante, 562, che evidenzia come l'art. 316 c.c. trovi applicazione con riferimento ad ogni ipotesi concernente comunque l'esercizio della responsabilità genitoriale). Tuttavia, un controllo di tal fatta contrasterebbe con la volontà del legislatore di circoscrivere l'intervento dell'Autorità giudiziaria in merito alle decisioni familiari che assumano per il minore un'importanza talmente significativa da consentire, quand'anche su richiesta dei genitori, «l'intrusione» dello Stato nelle scelte familiari.

Ove peraltro il contrasto sia manifestazione di un cattivo esercizio della responsabilità genitoriale ovvero della gestione del patrimonio del figlio, potranno trovare applicazione le disposizioni di cui agli artt. 333 e 334 c.c. Con la conseguenza che il genitore, nei casi più gravi, potrà essere rimosso dall'amministrazione dei beni del figlio e non potrà quindi rappresentarlo negli atti civili.

La rappresentanza del minore nel processo

Il potere di rappresentanza del minore si estende anche alla rappresentanza processuale dello stesso nei giudizi che lo riguardano. I genitori che intendano intraprendere un giudizio nell'interesse del figlio minorenne devono, infatti di regola, chiedere preventivamente l'autorizzazione al Giudice tutelare che invece non necessita per resistere in giudizio (si veda al riguardo il successivo paragrafo).

Nel dettaglio deve fin d'ora evidenziarsi che il criterio individuato dal legislatore è stato condivisibilmente ritenuto non univoco ed esclusivo. La necessità o l'utilità evidente di tutelare l'interesse, in sede processuale del minore, potrebbe essere infatti determinata anche da situazioni che sfuggono alla elencazioni dell'art. 320 c.c. (Bucciante, 627).

Ciò induce ad effettuare una valutazione empirica degli effetti che la domanda, ovvero l'atto sottostante, possano avere sul patrimonio del minore al fine di verificare la necessità, o meno, dell'autorizzazione del Giudice tutelare.

Particolare rilevanza assume la questione relativa ai limiti temporali del citato potere di rappresentanza nel caso di raggiungimento della maggiore età dal parte del figlio in pendenza del giudizio che lo riguardi.

Relativamente ai limiti temporali del potere di rappresentanza in ambito processuale, la Suprema Corte ha specificato che il ricorso per cassazione proposto dai genitori quali esercenti la potestà sul figlio, quando lo stesso sia già divenuto maggiorenne in pendenza del giudizio, impone l'integrazione del contraddittorio nei confronti di quest'ultimo, in quanto litisconsorte necessario. Ciò è necessario in considerazione della circostanza per la quale il figlio è già stato parte del giudizio nei precedenti gradi di merito, sicché egli è litisconsorte necessario in considerazione dei riflessi patrimoniali e non patrimoniali della domanda a lui riferibili, sia pure per effetto della rappresentanza legale dei medesimi genitori (in argomento Cass. III, n. 6515/2021).

È stato in quest'ottica affermato da Cass. S.U., n. 21670/2013 che qualora il figlio, divenuto nel frattempo maggiorenne, sia comunque intervenuto nel giudizio di legittimità, così aderendo alle censure proposte dai genitori, senza però notificare alle altri parti tale atto d'intervento, la fissazione del termine ex art. 331 c.p.c., in forza del principio della ragionevole durata del processo, può ritenersi anche superflua ove il gravame appaia fin dall'inizio infondato e l'integrazione del contraddittorio si riveli, perciò, attività del tutto ininfluente sull'esito del procedimento.

Con specifico riferimento all'appello proposto nei confronti dei genitori rappresentanti del figlio minore, divenuto maggiorenne dopo la scadenza dei termini per il deposito delle comparse conclusionali e memorie, Cass. I, n. 6515/2021 ha affermato in tale ipotesi la necessità dell'ordine di integrazione del contraddittorio affinché il minore (divenuto maggiorenne) possa partecipare al giudizio d'impugnazione come parte formale e non soltanto come parte sostanziale rappresentata.

Altra connessa questione è quella inerente il giudizio promosso dal genitore, privo di legittimazione processuale, in rappresentanza del figlio non più soggetto a potestà perché divenuto maggiorenne. L'evidente difetto di legittimazione processuale può però essere sanato in qualunque stato e grado del giudizio, con efficacia retroattiva e con riferimento a tutti gli atti processuali già compiuti. Ciò si verifica nel caso in cui il figlio, proponendo direttamente il ricorso per cassazione avverso la pronuncia di inammissibilità del precedente gravame esperito dal proprio genitore nella indicata qualità, manifesti in modo non equivoco la propria volontà di sanatoria (si vedano: Cass. III, n. 19308/2012; Cass. III, n. 19881/2011, e Cass. III, n. 23291/2004).

Peraltro, il raggiungimento della maggiore età nel corso del giudizio deve essere portato a conoscenza alle altri parti mediante dichiarazione, notifica o comunicazione con un atto del processo. Tuttavia, tale principio dell'«ultrattività» della rappresentanza opera soltanto nell'ambito della stessa fase processuale, attesa l'autonomia dei singoli gradi di giudizio (Cass. II, n. 19015/2010; Cass. I, n. 116/2004). Nel caso invece di compimento della maggiore età dopo la pubblicazione della sentenza, l'impugnazione deve essere proposta nei confronti del figlio e non dei genitori (quali rappresentanti del figlio), essendo cessato l'esercizio della responsabilità genitoriale e, con lei, il potere di rappresentanza di cui all'art. 320 c.c. In quest'ultimo caso, peraltro, l'atto di impugnazione sarebbe nullo per erronea identificazione del soggetto passivo della vocatio in ius (Cass. III, n. 8827/2003).

Il potere di rappresentanza spettante al genitore ai sensi dell'art. 320 c.c., sotto il profilo processuale, incontra gli stessi limiti previsti per il compimento di atti di straordinaria amministrazione. Sicché, non avendo il potere di disporre dei beni del figlio minore senza l'autorizzazione del giudice tutelare, il genitore non ha, nel processo, il potere di confessare, senza tale autorizzazione fatti dalla cui prova il figlio potrebbe trarne nocumento (Cass. III, n.3188/2006, e Cass. II, n. 5264/1989).

Peraltro ove il genitore agisca in giudizio in rappresentanza del figlio minore in difetto di autorizzazione ex art. 320 c.c., l'eccezione di carenza di legittimazione processuale sollevata è infondata se l'autorizzazione viene prodotta, ancorché successivamente alla scadenza dei termini ex art. 183, comma 6, c.p.c., ovvero se il figlio diventato maggiorenne si costituisce in giudizio così ratificando l'attività processuale del rappresentante legale, operando in entrambi i casi la sanatoria retroattiva del vizio di rappresentanza ai sensi dell'art. 182 c.p.c. (Cass. III, n. 2460/2020).

La Suprema Corte ha inoltre specificato che ove nel corso del giudizio, instaurato genitore quale rappresentante legale del figlio, il rappresentato raggiunga la maggiore età e venga dichiarato fallito, con conseguente interruzione del procedimento, il curatore fallimentare, al fine di riassumere il predetto processo, non è tenuto ad un atto di riassunzione né nei confronti del genitore, ormai non più contraddittore necessario per aver perso la rappresentanza processuale, né nei confronti del fallito. La sua capacità processuale è difatti relativa, in quanto subordinata all'eventuale inerzia del curatore, al quale spetta la legittimazione a far valere gli interessi della massa (Cass. I, n. 20285/2010).

Gli atti di straordinaria amministrazione

La circostanza per la quale il genitore abbia il potere di compiere tutti gli atti di amministrazione nell'interesse del minore non esclude che alcuni di essi possano essere compiuti senza che necessiti l'Autorizzazione del Giudice.

Quelli necessitanti di autorizzazione sono atti espressione di un'attività vincolata, cioè sottoposta «al previo controllo giudiziale che accerta se il compimento dell'atto sia necessario o utile agli interessi del figlio» (Santarcangelo, 2003, 182). In particolare l'art. 320 c.c. prevede al secondo comma che «i genitori non possono alienare, ipotecare o dare in pegno i beni pervenuti al figlio a qualsiasi titolo, anche a causa di morte, accettare o rinunziare ad eredità o legati, accettare donazioni, procedere allo scioglimento di comunioni, contrarre mutui o locazioni ultranovennali” o compiere altri atti eccedenti l'ordinaria amministrazione. Sempre per espressa previsione della medesima disposizione normativa, non è altresì possibile promuovere, transigere o compromettere in arbitri giudizi relativi a taluni degli atti innanzi indicati, se non per necessità o utilità evidente del figlio e dopo l'autorizzazione del giudice tutelare.

La distinzione prevista dalla disposizione in commento, tra atti di ordinaria amministrazione ed atti di straordinaria amministrazione, riveste fondamentale importanza atteso che solo per i secondi è necessario che i genitori, congiuntamente, chiedano l'autorizzazione al Giudice tutelare del luogo di abituale residenza del minore.

Si premette che la questione è particolarmente complessa ed ampia, sicché verrà affrontata nei limiti in cui essa assuma rilevanza in questa sede.

In dottrina la distinzione tra atti di ordinaria e straordinaria amministrazione è stata variamente fondata sulla idoneità dell'atto ad incidere sull'integrità del patrimonio o sulla rischiosità dell'atto per il patrimonio (si vedano, per la prima tesi, Finocchiaro-Finocchiaro, 2056, e, per la seconda, Mirabelli, 367).

Taluni in dottrina hanno quindi individuato nella distinzione tra atti che incidono sul reddito del minore ed atti che incidono sul patrimonio dello stesso, il criterio per stabilire se un atto sia o meno di straordinaria amministrazione. Sicché, l'atto che sarebbe di ordinaria amministrazione e, per converso, quello riguardante il capitale sarebbe di straordinaria amministrazione in forza della diversa incidenza sul patrimonio (Natoli, 147).

Per altra tesi, partendo dalla considerazione che è lo stesso legislatore a non fornire una definizione di atto di straordinaria amministrazione, il criterio distintivo deve essere ricercato nel concetto economico di conservazione del patrimonio. Dovendosi quindi valutare l'effetto che l'atto produce sul patrimonio (Mirabelli, 363). Quello diretto a procurare un vantaggio ovvero ad evitare una perdita sarebbe dunque atto di ordinaria amministrazione, in quanto afferente la normale gestione. Per converso, quello incidente sulla sostanza dei beni sarebbe atto di straordinaria amministrazione (Santarcangelo, 2003, 184 e 185, il quale ricostruisce le varie tesi e le relative critiche mosse in dottrina).

La norma in commento elenca alcuni specifici atti per i quali è necessaria l'indicata autorizzazione ma, in forza dell'inciso «o compiere altri atti eccedenti l'ordinaria amministrazione», deve ritenersi che quelli di straordinaria amministrazione non siano predeterminati tassativamente dal legislatore, dovendosi, quindi, effettuare una valutazione caso per caso alla luce delle caratteristiche intrinseche del negozio, e soprattutto degli effetti dello stesso, che si intenda porre in essere in nome e per conto del minore (si vedano in merito: Pelosi, 357; Bucciante, 623; si veda altresì Santarcangelo, 2003, 188, il quale ritiene atto di straordinaria amministrazione quello comportante un mutamento della composizione del patrimonio; con riferimento alla qualificazione di atto come straordinario veda altresì Albanese, 1141, che considera anche gli effetti del negozio posto in essere senza la preventiva autorizzazione).

Non trattandosi di elencazione tassativa, quella di cui all'art. 320, comma 3, c.c., l'interprete è tenuto ad effettuare una valutazione caso per caso in merito alla natura dell'atto, agli effetti sul patrimonio del minore per verificare se lo stesso debba, o meno, essere autorizzato preventivamente dal Giudice tutelare. Ciò comporta che l'autorizzazione sia necessaria anche se l'atto in questione non appaia riconducibile ad alcuna delle categoria di cui al detto elenco, sempre che il relativo contenuto o le concrete caratteristiche del negozio siano tali da renderlo esorbitante rispetto all'ordinaria amministrazione del patrimonio del minore (in tale ultimo senso, Bucciante, 623; De Cristofaro, 2002, 1085) e quindi sia tale da produrre effetti analoghi o simili a quelli disciplinati dal legislatore (in tale ultimo senso, Bucciante, 623).

Sembra però potersi ritenere, in questa sede, che al fine di accertare la natura dell'atto potrebbe soccorrere il ragionamento inverso, cioè muovere dall'individuazione delle caratteristiche tipiche di un atto di ordinaria amministrazione, così come ritenute dall'unanime giurisprudenza di legittimità, la cui assenza nel caso concreto implicherebbe il necessario riconoscimento all'atto della diversa natura straordinaria.

Al di fuori dei casi specificatamente individuati ed inquadrati nella categoria degli atti di straordinaria amministrazione, è di ordinaria amministrazione l'atto oggettivamente utile per la conservazione del valore e dei caratteri oggettivi essenziali del patrimonio del minore e di valore economico non particolarmente elevato, in senso assoluto e soprattutto in relazione al valore totale del patrimonio del minore, sempreché comporti un margine di rischio modesto in relazione al detto patrimonio. È quindi necessaria la compresenza dei tre requisiti sopra indicati, sicché, in assenza anche di uno solo di essi l'atto dovrà essere considerato di straordinaria amministrazione (in tal senso di veda Cass. III, n. 7546/2003, che argomenta all'esito di una ricostruzione del panorama dottrinal-giurisprudenziale relativo alla qualificazione dell'atto come di straordinaria amministrazione (in tal senso altresì Cass. III, n. 8461/2019).

La conservazione del patrimonio deve però essere intesa in senso dinamico in quanto atti di per sé non aventi natura conservativa (e persino tipici atti di disposizione dei diritti del minore, come, in ipotesi, la compravendita), se compiuti a scopo conservativo e sempreché di valore non eccessivo rispetto al quello totale del patrimonio e del quale non alterino le caratteristiche essenziali, possono essere considerati atti di ordinaria amministrazione, se non rischiosi ma anzi utili per la conservazione del detto valore totale ( Cass. III, n. 7546/2003; da ultimo in questo senso Cass. I, n. 8461/2019 ).

In quest'ottica, ad esempio, la transazione, pur essendo indicata tra gli atti eccedenti l'ordinaria amministrazione, non sempre sarà oggetto di specifica autorizzazione da parte del Giudice tutelare. Solo ove essa abbia ad oggetto un danno che per la sua natura ed entità possa incidere profondamente sulla vita presente e futura del minore danneggiato, sarà necessario l'intervento del Giudice tutelare.

Cass. III, n. 8720/2010 , ha affermato il detto principio in fattispecie nella quale i genitori di un minore, senza chiedere la preventiva autorizzazione al Giudice tutelare, avevano stipulato con una compagnia assicurativa una transazione per il danno subito dal figlio a seguito di un sinistro. Per tale danno erano stati riconosciuti in primo grado oltre sessanta milioni di lire, mentre, in secondo grado, la somma era stata ridotta a cinque milioni di lire. Per la Suprema Corte, nella specie, ha ritenuto priva della necessaria autorizzazione la transazione per essere stato erroneamente ritenuto di non rilevante entità il danno subito dal minore in quanto valutato sulla base della stima dei postumi permanenti effettuata dal tecnico di parte nell'ordine del 4,5%, a fronte del 45%-50% accertato dal consulente tecnico di ufficio in primo grado.

In conclusione, qualora l'atto non abbia le caratteristiche di cui innanzi, essendo di straordinaria amministrazione, dovrà essere previamente autorizzato dal Giudice tutelare, all'esito della considerazione della necessità o utilità evidente per il minore. A tal fine possono ritenersi necessari gli atti senza i quali il patrimonio del minore si impoverirebbe e di utilità evidente quelli che determinerebbero un sicuro incremento del detto patrimonio, con rischio limitato.

La formula legislativa, che fa riferimento al concetto di utilità, dimostra, quindi, che l'amministrazione del patrimonio non si sostanzia soltanto in attività conservative (così La Rosa, 919).

Alla stregua di quanto innanzi specificato ed argomentato la promozione di un giudizio che, in relazione al relativo oggetto, possa arrecare un pregiudizio o una diminuzione del patrimonio del minore costituisce atto di straordinaria amministrazione. Per converso, è di ordinaria amministrazione quello diretto al miglioramento ed alla conservazione dei beni che fanno già parte del patrimonio dell'incapace. Sicché, sono atti di ordinaria amministrazione l'azione di rivendica, in quanto finalizzata ad accrescere e tutelare il patrimonio del minore, l'intervento volontario in giudizio volto a contrastare la domanda dell'attore di riconoscimento del diritto di proprietà, in quanto l'autorizzazione necessita solo quanto il minore assume la veste di attore, in primo grado, ma non per le difese e gli atti diretti a resistente all'azione dell'avversario (Cass. II, n. 743/2012).

L'azione diretta all'abbattimento di opere costruite in violazione delle distanze legali, sempre in applicazione dei medesimi criteri, è atto di ordinaria amministrazione in quanto volto ad impedire l'assoggettamento del fondo dell'incapace al fondo altrui (Cass. I, n. 8484/1989). Parimenti di ordinaria amministrazione è il contratto di mutuo, sempre che emerga la prova specifica che il prestito sia suscettibile di restituzione mediante l'impiego del reddito del minore e senza pericolo di decurtazione dei suoi capitali o di diminuzione del suo patrimonio (Cass. II, n. 6542/1987, e Cass. II n. 1741/1968). Non è necessaria, inoltre, l'autorizzazione del Giudice tutelare ove il genitore si limiti a succedere, in nome e per conto del figlio, nella posizione processuale dell'altro coniuge defunto, nelle more del giudizio promosso dallo stesso per conservare l'integrità del proprio patrimonio poi divenuto oggetto della successione (Cass. III, n. 3787/1987). Idem, con riferimento all'azione di costituzione di servitù di passaggio, in quanto avente natura conservativa (Cass. S.U., n. 670/1989). Anche la proposizione dell'azione diretta ad ottenere il risarcimento del danno subito da un minore, mirando alla reintegrazione del patrimonio leso dall'atto dannoso, secondo la giurisprudenza rientra tra gli atti di ordinaria amministrazione e, pertanto, può essere effettuata dal genitore esercente la responsabilità genitoriale senza autorizzazione del giudice tutelare, la quale non è necessaria neppure affinché il suddetto genitore possa transigere la relativa lite (Cass. III, n. 59/1989). Costituisce atto di ordinaria amministrazione, per il quale non è necessaria la predetta autorizzazione, l'assunzione di una posizione processuale assimilabile a quella di un convenuto, come la proposizione di un atto di appello per contrastare la sentenza di primo grado che abbia accolto la domanda dell'attore di esecuzione specifica dell'obbligo di concludere il contratto ex art. 2932 c.c., trattandosi di un atto di difesa diretto a resistere all'azione avversaria (Cass. I, n. 10930/2022).

Il potere di rappresentanza del genitore, con gli effetti che ne conseguono, non si estende peraltro al compimento di atti in frode alla legge né al contratto in favore di terzo.

Tale ultima tipologia di contratto, infatti, ove stipulato dal genitore a vantaggio del figlio minore, non implica né l'esercizio del potere di rappresentanza né l'accettazione da parte del figlio (Cass.I, n. 11/1985).

Parimenti, la circostanza per la quale il genitore rappresenta il figlio in tutti gli atti civili non comporta la riferibilità al minore del contratto in frode alla legge ovvero contrario a norme imperative, stipulato del genitore in sua rappresentanza. In tal caso si è infatti in presenza di contratto nullo e quindi improduttivo degli effetti in capo al rappresentato in quanto stipulato dal rappresentante oltre i limiti delle facoltà a lui attribuite (peraltro per legge), non potendosi difatti riconoscere al genitore il potere di compiere atti contrari alla legge ovvero a norme imperative (Cass.III, n. 5371/1987).

Riscossione di capitali, transazioni e trust

Un discorso a parte meritano, tra gli atti soggetti all'autorizzazione del Giudice tutelare, i compromessi, le transazioni e la riscossione di capitali, da intendersi quest'ultima come qualunque prestazione pecuniaria che il minore abbia diritto di conseguire (Dogliotti, 379). Condivisibilmente si è ritenuto che il controllo dell'Autorità giudiziaria sia previsto per evitare che le somme riscosse dai genitori, in nome e per conto dei figli, vengano utilizzate con criteri e modalità corrispondenti all'interesse di quest'ultimo e non per fini personali dei genitori ovvero in contrasto con quelli del figlio (Pelosi, 367; Dogliotti, 379).

Parimenti, le transazioni ed i «compromessi» sono oggetto di autorizzazione del Giudice tutelare, atteso che con tali negozi giuridici il patrimonio del minore può subire un decremento. Sia in dottrina che in giurisprudenza, tuttavia, ci si è espressi nel senso che non tutti gli atti, in astratto riconducibili a tale fattispecie, debbano necessariamente essere oggetto di autorizzazione da parte del Giudice tutelare. È stato invero rilevato che le transazioni richiedono l'intervento dell'Autorità giudiziaria tutte le volte in cui le reciproche concessioni possano avere notevole incidenza sul patrimonio del minore (in questo senso, Finocchiaro-Finocchiaro, 2075).

La Suprema Corte, nell'ottica di cui innanzi, ha escluso che sia necessaria l'autorizzazione del giudice tutelare al compimento dell'atto quando, con riferimento alla entità della somma oggetto della transazione e della condizione economica delle parti, l'oggetto della lite debba ritenersi rilevante. È stata così ritenuta necessaria l'autorizzazione in fattispecie nella quale il genitore aveva accettato, nelle more della definizione del giudizio ed a completa tacitazione di ogni pretesa risarcitoria, cinque milioni di lire, a titolo di risarcimento, laddove nel giudizio di primo grado dal giudice erano stati liquidati sessantadue milioni di lire. Cass. III, n. 8720/2010 (in Giur. it., 2011, 56, con nota di Sgobbo) ha in particolare specificato che la transazione deve essere autorizzata dal Giudice tutelare avendo ad oggetto un danno di entità tale da poter incidere profondamente sulla vita presente e futura del minore danneggiato (nello stesso senso si è espressa anche Cass. III, n. 4562/1997; in senso non perfettamente conforme sembrano invece esprimersi le più risalenti Cass. III, n. 59/1989 e Cass. II, n. 592/1969, per le quali la facoltà di transigere o di promuovere giudizi, quando attiene ad atti meramente conservativi e migliorativi del patrimonio, può esercitarsi senza autorizzazione del giudice tutelare.

La giurisprudenza di merito ha inoltre ritenuto che non sia soggetta ad autorizzazione del Giudice tutelare la riscossione di somme aventi cadenza periodica come l'indennità di frequenza o l'indennità di accompagnamento (nonché i ratei arretrati). Ciò in quanto il termine «capitali» contenuto nella disposizione di cui all'art. 320 c.c. deve intendersi riferito a somme versate una tantum e destinate a produrre frutti nel lungo periodo. Le citate somme, al contrario, sono destinate, al contrario, per loro natura ad essere utilizzate direttamente dall'esercente la responsabilità genitoriale per l'assistenza e la cura del minore portatore di handicap (Trib. di Milano, 31 ottobre 2013).

La costituzione di un trust in favore del minore costituisce un atto di straordinaria amministrazione in forza degli effetti che esso è destinato a dispiegare sul patrimonio. Conseguentemente, ove ne venga verificata l'utilità evidente, esso può essere oggetto di autorizzazione da parte del Giudice tutelare in favore del figlio minorenne (in merito si veda: Trib. Bologna, 3 dicembre 2003, in Trusts e attività fiduciarie, 2004, aprile, 254; in tema di non ricorribilità per Cassazione del decreto di revoca del Trust, reso dal tribunale in sede di reclamo, si veda Cass. I, n. 1873/2016).

Al contrario, è stata esclusa la necessità di sottoporre ad autorizzazione del giudice tutelare, l'atto di destinazione di un compendio immobiliare sia per il conseguimento che per il consolidamento della posizione beneficiaria. In particolare nella fattispecie al vaglio di Trib. Saluzzo, giud. tut., 19 luglio 2012 (in Fam. min., 2012, 12, 9) i genitori del minore avevano chiesto l'autorizzazione a destinare il compendio immobiliare di cui erano titolari per il soddisfacimento dei bisogni della famiglia, ex art. 2645-ter c.c. Il Giudice tutelare, ha escluso la necessità dell'autorizzazione trattandosi di atto di destinazione, non implicante, in quanto tale, trasferimento di diritti e non involgente alcun preesistente diritto dei minori, così sfuggendo all'elencazione prevista dall'art. 320 c.c., sia sotto il profilo dell'atto dispositivo sia con riferimento all'adesione al negozio da parte dei minori (non determinando alcuna diminuzione patrimoniale).

Vendita dei beni ereditari

La giurisprudenza di legittimità, da tempo, ha affrontato e risolto il problema relativo al riparto di competenza tra il Tribunale ordinario del luogo dove si è aperta la successione, ex art. 747 c.p.c. ed il Giudice tutelare del luogo di residenza del minore competente ad autorizzare atti di straordinaria amministrazione relativi al minore ex art. 320 c.c. Può capitare infatti che il minore sia anche erede e che, pertanto, debba stabilirsi quale Autorità giudiziaria debba autorizzare il compimento di un atto straordinario relativo ad un bene ereditario.

Il problema dell'individuazione del Giudice competente ad autorizzare la vendita ereditati dal minore soggetto a responsabilità genitoriale è stato risolto dalla giurisprudenza di legittimità. Essa appartiene al Giudice tutelare del luogo di residenza del minore, a norma dell'art. 320, comma 3, c.c., unicamente per quei beni che, provenendo da una successione ereditaria, si possono considerare acquisiti al suo patrimonio. Ne consegue che, ai sensi dell'art. 747, comma 1, c.p.c., la competenza spetta, sentito il giudice tutelare, al tribunale del luogo di apertura della successione, ove il procedimento dell'acquisto «iure hereditario» non si sia ancora esaurito per essere pendente la procedura di accettazione con beneficio di inventario. In tale ipotesi, difatti, l'indagine del giudice non è circoscritta soltanto alla tutela del minore, ai sensi dell'art. 320 c.c., ma si estende a quella degli altri soggetti interessati alla liquidazione dell'eredità. In tal modo, peraltro, si evita una disparità di trattamento fra minori «in potestate» e minori «sotto tutela», con riguardo alla diversa competenza a provvedere per i primi (giudice tutelare, ai sensi dell'art. 320 c.c.) e per i secondi il Tribunale, quale giudice delle successioni, in base all'art. 747 c.p.c. (si vedano: Cass. II, n. 13520/2012; Cass. II, n. 2286/1998; Cass. II, n. 2994/1997, e Cass. S.U., n.1593/1981).

Nel senso della più agevole individuazione dell'ambito di competenza del Giudice tutelare e del Tribunale, con riferimento al compimento di atti di straordinaria amministrazione relativi ad una eredità, è stato, inoltre, specificato che l'art. 747 c.p.c., sebbene si riferisca alla alienazione dei beni, trova comunque applicazione non solo con riferimento alle vendite in senso stretto degli immobili ma anche con riferimento all'autorizzazione al compimento di tutti gli atti che possano direttamente o indirettamente incidere sulla proprietà degli immobili ereditari, rendendo necessaria una valutazione relativa ad interessi diversi da quelli del minore, come nel caso in cui si intenda esercitare l'azione di divisione (Cass.I, n. 2994/1997).

Deve essere, infine, segnalata una risalente decisione di merito che ha ritenuto sussistente la competenza per l'autorizzazione di atti di straordinaria amministrazione in capo al Giudice tutelare ai sensi dell'art. 320 c.c., muovendo dalla circostanza per la quale dell'esame della dichiarazione di successione non emergevano passività né aventi causa dei quali tutelare i diritti (Pret. Roma, 9 aprile 1996, in Riv. notar., 1996, 906).

La continuazione dell'esercizio dell'impresa commerciale

L'esercizio dell'impresa commerciale da parte di un minore, per la sua stessa natura dinamica e per il rischio di fallimento che comporta, ha determinato il legislatore a circoscriverne l'ambito solo al caso in cui si tratti di continuare un'imprese già esistente, sottoponendo l'autorizzazione ad un procedimento più rigoroso (Bucciante, 568).

Il minore poteva infatti essere autorizzato dal Tribunale in composizione collegiale all'esercizio dell'impresa commerciale, previo parere del Giudice tutelare e su ricorso dei genitori, non essendovi legittimazione concorrente di altri soggetti (Santarcangelo, 2003, 269). Il Giudice tutelare, peraltro, poteva anche consentire l'esercizio provvisorio dell'impresa fino a quando il Tribunale non avesse deliberato sull'istanza. Diversamente da quanto avviene per il minore sottoposto a tutela, i genitori godono di un maggiore margine di autonomia, essendo rimessa alla loro discrezionalità la scelta di rivolgersi, o meno all'autorità giudiziaria per chiedere l'autorizzazione a continuare l'esercizio dell'impresa commerciale. Diversamente il tutore, una volta terminato l'inventario e verificata la presenza di un'impresa commerciale, è tenuto a rivolgersi al Giudice tutelare affinché egli deliberi sulla convenienza della continuazione, ovvero della alienazione o liquidazione delle aziende commerciali.

Per continuazione dell'impresa deve in particolare intendersi soltanto la continuazione di attività legate alle aziende pervenute al minore a titolo gratuito, per donazione o per successione (Santarcangelo, 2003, 268). Taluni in dottrina ammettono che il minore possa anche acquistare a titolo oneroso l'azienda, al fine di affittarla ovvero per investire i propri capitali, ma in tal caso escludono che possa essere autorizzato a continuarne l'esercizio (Bucciante, 570). L'articolo 320 c.c. si riferisce peraltro esplicitamente alla sola impresa commerciale e ciò ha indotto nel passato ed induce tuttora a ritenere che per l'esercizio dell'impresa agricola trovino applicazione le disposizioni vigenti in tema di atti di straordinaria amministrazione, ex art. 320, comma 1, c.c. (in questo senso, Ferri, 92).

In forza della modifica all’articolo in commento ad opera del d.lgs. n. 149/2022 l’autorizzazione non è più concessa dal Tribunale ma dal Giudice tutelare, il quale a seguito della abrogazione dell’art. 375 c.c. è divenuta l’autorità competente ad emettere i provvedimenti autorizzativi riguardanti gli atti di straordinaria amministrazione dei minori, degli interdetti e delle persone sottoposte ad amministrazione di sostegno.

Una volta autorizzata la continuazione dell'impresa commerciale, l'atto autorizzativo comprende, senza che sia a tal fine necessaria alcuna specifica autorizzazione da parte del Giudice tutelare, anche i singoli atti strettamente collegati a tale esercizio, stante il carattere dinamico dell'impresa e la necessità di assumere decisioni pronte e tempestive le quali sarebbero gravemente ostacolate o paralizzate se oggetto di specifica autorizzazione del giudice (Cass. II, n. 10654/2011). Gli atti, peraltro, per non necessitare di ulteriore autorizzazione da parte del Giudice tutelare devono essere pertinenti all'esercizio dell'impresa o ad esso collegati direttamente.

In applicazione del principio, Cass. II, n. 13154/2007 ha confermato la sentenza con la quale era stata annullata la vendita di una partecipazione societaria non risultando dimostrata la necessità di capitali né il reimpiego del ricavato dell'attività di impresa.

Anche la partecipazione a società può essere oggetto di autorizzazione da parte del Tribunale qualora si assuma una responsabilità illimitata, quale accomandatario o socio in una società in nome collettivo. In tal caso si verifica peraltro un'ipotesi di conflitto di interessi tra i genitori ed il figlio nell'ipotesi di acquisto di partecipazioni per quote distinte (Santarcangelo, 2003, 280).

Al riguardo la giurisprudenza non ha tuttavia assunto una posizione univoca ammettendo, in alcuni casi, e negando, in altri, la possibilità per il minore di essere socio, nella specie, di una cooperativa (in merito al conflitto di cui innanzi si vedano i differenti approdi di: Trib. Lecce, 16 maggio 1990, in Riv. not., 1990, 767, e Pret. Gallipoli, 27 marzo 1990, in Riv. not., 1990, 767).

Il conflitto di interessi

L'ultimo comma dell'art. 320 c.c. disciplina le ipotesi di conflitto d'interessi tra figli soggetti alla stessa responsabilità genitoriale o tra essi ed i genitori ovvero con quello che eserciti in via esclusiva la responsabilità genitoriale. In questi casi il Giudice tutelare nomina un curatore speciale sempre che il conflitto non sia tra i figli ed un solo genitore, non sussistendo conflitto con l'altro genitore.

Il conflitto di interessi si sostanzia in un pericolo di danno o, più precisamente, nel pericolo di abuso da parte dei rappresentanti, dal quale possa derivare danno al rappresentato. Il pericolo, per essere tale, deve essere attuale e sussistere quindi al momento della conclusione del negozio (Bucciante, 637; Santarcangelo, 2003, 66).

Esso in particolare presuppone una situazione caratterizzata da un contrasto di interessi, tra loro contrapposti, da valutarsi e contestualizzarsi nella complessità del rapporto familiare, di modo che la realizzazione dell'uno possa compromettere la soddisfazione dell'altro, ponendosi in posizione alternativa ed inconciliabile tra loro (Ruscello, 159).

Autorevole dottrina ritiene che il conflitto disciplinato dalla norma possa anche realizzarsi in forma indiretta allorché i genitori perseguano un interesse non loro ma di una terza persona (Pelosi, 205; Bucciante, 578).

Una volta verificatasi la condizione indicata dal quinto comma della norma in commento, il giudice tutelare nomina il curatore speciale, i cui poteri comprendono sia la rappresentanza che l'amministrazione con riferimento all'atto autorizzato. Essi, tuttavia, anche se la nomina sia avvenuta per un unico atto, non si restringono sempre al puro e semplice compimento dell'atto stesso ma abbracciano anche tutti gli atti preparatori o successivi, necessari o utili per la completa definizione di quell'affare (Bucciante, 637).

Nel senso di cui innanzi si è altresì pronunciata la recente Cass. III, n. 7889/2017, ribadendo (quanto già statuito dalle Sezioni Unite nel 1985) che il curatore speciale, nominato ai sensi dell'art. 320 c.c. in una situazione di conflitto di interessi tra il minore e l'esercente la responsabilità genitoriale, svolge una funzione di contenuto identico a quello del genitore sostituito e quindi, sia pure nei limiti del particolare affare che ne ha imposto la nomina, è legittimato a rappresentare il minore anche sotto il profilo processuale quanto ai giudizi che sorgono in relazione all'atto per cui sia stato nominato (si vedano, nello stesso senso: Cass. III, n. 13507/2002 e Cass. S.U., n. 5073/1985, in tema di fideiussione).

La nomina del curatore speciale non comprende l'autorizzazione al compimento dell'atto diversamente egli non svolgerebbe la propria funzione che è quella di rappresentare il minore con riferimento all'atto richiesto e di valutare pertanto se esso, voluto dai genitori, corrisponda all'interesse del minore. Ove la valutazione dovesse essere negativa, egli pertanto potrà o non presentare alcuna istanza o rappresentare al Giudice tutelare le ragioni in forza delle quali ritenga l'atto contrario agli interessi dell'incapace. Si pensi, a mero titolo esemplificativo, ad un atto pregiudizievole per il patrimonio del minore voluto dal genitore per tutelare interessi personali (in merito si veda Santarcangelo, 71 e 75, con riferimento particolare alla ricostruzione delle tesi esistenti circa la possibilità di nominare il curatore e contestualmente autorizzarlo a compiere l'atto di straordinaria amministrazione).

Conflitto di interessi: casistica

La giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di pronunciarsi in merito a specifici aspetti del conflitto di interessi di cui all'ultimo comma dell'art. 320 c.c.

Si ritiene opportuno chiarire, in questa sede, che la disposizione in commento si riferisce esclusivamente al conflitto di carattere patrimoniale. Sicché, ogni qualvolta si manifesti l'esigenza di tutelare il minore, nell'ambito dei rapporti familiari o di stato, la nomina del curatore speciale sarà di competenza dell'Autorità giudiziaria già individuata dal legislatore in norme specifiche (tra le quali l'art. 247 c.c.), con la conseguenza che deve escludersi la legittimazione a rappresentare il minore nel procedimento di stato da parte del curatore nominato in forza della norma in commento (si vedano, per la giurisprudenza di legittimità, Cass. I, n. 1784/1965, e, per quella di merito, Trib. min. Perugia, 26 aprile 1999, in Dir. fam., 1999, 1231).

Esclusa dunque la possibilità di utilizzare tale disposizione per conflitti aventi natura diversa da quella patrimoniale, la Suprema Corte ha chiarito che il conflitto sussiste anche se solo potenziale, ogni volta che la posizione del figlio e dei genitori sia anche solo astrattamente incompatibile. La verifica della sussistenza del conflitto, pertanto, deve essere compiuta in astratto ed  ex ante  anziché in concreto ed  a posteriori. Cass. II, n. 13507/2002, in applicazione del principio, ha ritenuto nullo il giudizio per vizio di costituzione del rapporto processuale. Non vi è conflitto, al contrario, quando il compimento dell'atto, pur avendovi i due soggetti un interesse proprio e distinto, realizza un vantaggio comune ad entrambi senza danno reciproco (Cass.III, n. 2489/1992).

Si è posto in dottrina il problema del conflitto di interessi con riferimento alla fattispecie, tutt'altro che infrequente, della donazione da parte del genitore nei confronti del figlio minore. Ci si è chiesti, in particolare, chi sia il soggetto legittimato ad accettare, in nome e per conto del minore, la donazione che uno o entrambi i genitori intendano fare al figlio.

In merito, secondo tesi più risalente, viene in considerazione l'art. 1395 c.c. che consente al procuratore volontario di concludere un contratto con se stesso, in applicazione della c.d. «teoria dell'autocontratto» (Jorio, 115). Essa non è tuttavia condivisa dalla prevalente dottrina che, per converso, esclude l'applicabilità dell'articolo da ultimo citato all'ipotesi di rappresentanza legale, avendo essa dei presupposti differenti da quelli di cui alla rappresentanza volontaria, tale da non consentire di individuare nella normativa atti analoghi alla specifica autorizzazione del dominus (nel senso della non applicabilità della c.d. teoria dell'autocontratto, si vedano, per tutti: Torrente, 1953, 373, e Pelosi, 239).

Esclusa quindi l'operatività della c.d. teoria dell'autocontratto, parte della dottrina ritiene che nella donazione in esame sia insito un conflitto d'interessi tra donante e donatario (Finocchiaro-Finocchiaro, 2113). Esso è invece escluso da altri autori, in considerazione del fatto che gli interessi tra donante e figlio donatario non sarebbero contrastanti bensì coincidenti (Santarcangelo, 1976, 63, Torrente, 1953, 373). Questi ultimi ritengono invece che il genitore non sia legittimato ad accettare la donazione, in nome e per conto del figlio, ove egli ricopra contestualmente la veste di donante e di donatario in quanto si realizzerebbe un contratto con se stesso e non vi sarebbe la necessaria dualità di posizioni tra donante e donatario (Santarcangelo, 1976, 63; Torrente, 1953, I, 151; Torrente, 1953, 373).

In questo senso, si è espressa la Suprema Corte, affermando che in tema di donazione, qualora la qualità di donante venga assunta da entrambi o anche da uno solo dei genitori investiti della legale rappresentanza dello stesso, si verifica un'ipotesi di conflitto di interessi patrimoniali, che rientra nell'ambito della previsione dell'ultimo comma dell'art. 320 c.c. (si vedano, per la giurisprudenza di legittimità, Cass. I, n. 1785/1965, e, per quella di merito, Trib. min. Perugia, 24 giugno 1999, in Dir. fam., 1999, 1231).

È appena il caso di evidenziare, in questa sede, che la recente Cass. III, n. 7889/2017 sembra confermare il risalente orientamento sopra citato. Nella fattispecie la Corte ha affermato che ai fini della nomina del curatore speciale il conflitto tra il rappresentante ed il minore incapace non deve essere effettivo ma è sufficiente che sia anche solo potenziale.

L'autorizzazione del Giudice tutelare: il procedimento

L'istanza di autorizzazione ex art. 320 c.c. deve essere presentata, prima del compimento dell'atto, da entrambi i genitori ovvero da quello esercente la responsabilità genitoriale in via esclusiva al Giudice tutelare del luogo ove il minore dimora abitualmente.

L'autorizzazione del Giudice tutelare non può difatti intervenire successivamente al compimento dell'atto in quanto non diretta a conferire efficacia ad un negozio giuridico già formato ma elemento costitutivo della stessa e, pertanto, necessitante al momento della sua conclusione (Cass. I, n. 3088/1979). In mancanza, l'atto può essere annullato ma il difetto di autorizzazione può essere fatto valere solo da genitore che abbia agito in rappresentanza del figlio o dal figlio medesimo (Cass. II, n. 7495/1996).

La decisione del Giudice tutelare in merito all'istanza de qua ha la forma del decreto immediatamente efficace.

In merito assume particolare rilievo, anche per i rilevanti risvolti processuali e sostanziali, la decisione del Tribunale di Milano che ha ritenuto non sempre necessaria la comunicazione degli atti al Pubblico ministero, salvo che il giudicante non ravvisi, comunque, quel pubblico interesse che lo autorizzi a sollecitare l'intervento facoltativo del detto Ufficio. È stato in particolare evidenziato che la comunicazione degli atti al Pubblico Ministero deve essere valutata alla luce di quanto previsto dall'art. 70 c.p.c, il cui primo comma individua le sole fattispecie nelle quali il Pubblico ministero deve intervenire necessariamente nel processo. Il successivo terzo comma, diversamente, disciplina l'intervento facoltativo, disponendo che il Pubblico ministero può interviene laddove si ravvisi un pubblico interesse, la cui sussistenza tuttavia non è ricollegata ad ipotesi predeterminate ma deve essere riscontrata in concreto dal Giudice.

Le argomentazioni di cui innanzi, trovano peraltro ulteriore conferma nel successivo art. 71 c.p.c., in tema di facoltatività per il giudice di dare comunicazione al Pubblico ministero degli atti nei casi previsti dall'art. 70, ultimo comma c.p.c. Sicché, «restano esclusi dalla previsione normativa» di cui al citato art. 70 «tutti i sub-procedimenti relativi» a quello di amministrazione di sostegno «nonché tutti i procedimenti camerali di competenza del giudice tutelare (ad es. i decreti di cui agli artt. 374,375, 320 c.c.) non espressamente richiamati dal legislatore nelle norme sopra indicate, sempre che il giudice tutelare non ravvisi la sussistenza di quel pubblico interesse che lo autorizza a sollecitare l'intervento facoltativo del Pubblico ministero attraverso la comunicazione a quest'ultimo degli atti» (Trib. Milano, giudice tutelare, 29 aprile 2014, con riferimento ad un'istanza di autorizzazione di vendita di un bene in un procedimento di amministrazione di sostegno).

Ex art. 45 disp. att. c.c. il provvedimento del Giudice tutelare emesso ai sensi dell'art. 320 c.c. è reclamabile davanti al Tribunale ordinario. Il provvedimento con il quale quest'ultimo abbia statuito in merito non è però impugnabile con il ricorso straordinario per cassazione, ex art. 111 Cost., poiché privo del carattere di decisorietà e definitività, essendo modificabile e revocabile in ogni tempo per motivi originari e sopravvenuti, e non essendo diretto alla risoluzione di una controversia concernente diritti soggettivi o status (in tal senso Cass. I, n. 1611/2009, in fattispecie inerente ricorso avverso provvedimento di accoglimento di reclamo contro il decreto del Giudice tutelare che aveva autorizzato il genitore, esercente la responsabilità genitoriale sul figlio minore, ad accettare l'eredità di un parente ed a promuovere giudizio di riduzione delle disposizioni testamentarie). Per i procedimenti introdotti successivamente al 28 febbraio 2023, trova applicazione l’art. 739 c,p.c. così come modificato dal d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149. 

Bibliografia

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